INCIPIT… NOTA INTRODUTTIVA

NOTA INTRODUTTIVA

C’ è un disegno di Hugo raffigurante un abbozzo di corpo umano, con la testa senza tratti somatici ma delineata con precisione, un braccio proteso con la mano spalancata. Il titolo è La coscienza davanti a una cattiva azione, ovvero il luogo del desiderio, ciò che Hugo desidererebbe per molti suoi personaggi che, nelle malvagie azioni, perseverano.

E se c’ è un romanzo che quell’immagine nega, è proprio Notre Dame de Paris, un testo privo di remissioni, che parla del buio delle coscienze o, quantomeno, nel quale coscienze di natura ibrida finiscono tacitate. La particolarità -e ciò che, probabilmente, ha contribuito al successo dell’opera- è che tutto accade con una trama in sé esile, contornata da situazioni che, come sempre in Hugo, si muovono tra antitesi e complemento, nel caso dei due regni speculari dell’amministrazione dell’ingiustizia: la Corte Reale e la Corte dei Miracoli; dove s’intrecciano altre singole vicende spesso incentrate sulle disperate anomalie di legami familiari (Esmeralda e Gringoire; Frollo e il fratello Jehan; Esmeralda e la madre) e sentimentali (Esmeralda e Phoebus, Frollo e Quasimodo ed Esmeralda), ma pure la presenza del deus-ex-machina Hugo, che muove palesemente i fili che riannodano la storia alla Storia (di quel XV secolo, ma pure dei precedenti e successivi), con confronti e condanne, richiami a persistenze di stupidità, delusioni e nostalgie.

Le discussioni esplicite di Notre Dame de Paris sono le dissertazioni su cultura e società, su architettura e scrittura e sul loro passaggio di consegne proprio allora, rese a loro volta spettacolari nella traccia di un poema della Parigi che fu, e che suscitano la medesima partecipazione che lega il lettore alle vicende di Esmeralda, Quasimodo e Frollo.

Quel Frollo che, per certi aspetti erede del Monaco di Lewis, è personaggio unico nel suo universo narrativo. Notre Dame de Paris può essere pensato come un romanzo di liberazione, in cui l’autore brucia le proprie fonti per accingersi a una avventura narrativa tutta sua.

5Notre Dame de Paris, nato come romanzo, diviene un progetto più che trentennale, illustrato dalla Prefazione a Les travailleurs de la mer del 1866:

Una triplice Ananke pesa su noi: l’ ananke dei dogmi, l’ ananke delle leggi, l’ ananke delle cose. In Notre-Dame de Paris l’ autore ha denunziato la prima, nei Miserabili ha segnalato la seconda; in questo libro indica la terza. A queste tre fatalità che avviluppano l’uomo si uniscono la fatalità interiore, l’Ananke suprema, il cuore .

(Hugo, 1866)

E Ananke è parola che Hugo dichiara d’ aver letto “nell’ oscuro recesso di una delle torri” della cattedrale. Una parola che è una trama, perché è il cuore la tragedia di questo romanzo. È il cuore, l’ amore, ciò che fa di Notre-Dame un romanzo di ossessioni concluse in tragedia: il delirio della conoscenza in Frollo, che vede l’ uomo razionale sconfitto dal Mostro che alberga in lui, facendolo muovere per vie non razionali ma passionali, contrariamente al ‘mostro’ Quasimodo che, per oltre metà romanzo definito con impietosa casistica da dizionario nel suo status bestiale, è umanizzato da un solo gesto di pietà (Esmeralda che lo disseta, alla gogna) che lo spinge a un matrimonio mortuario, lasciandosi morire abbracciato al cadavere di Esmeralda. Quella Esmeralda che si tradisce avvertendo la voce dell’amato Phoebus: un nome ossimorico, essendo portato da un uomo senza cuore e senza intelligenza. Del resto, la solarità stessa del nome di Phoebus è la solarità del nulla, contrapposta al cupo e al nero di un romanzo i cui estremi della mostruosità avviluppante l’uomo risiedono non nell’orrida fisicità di Quasimodo, ma nella terrificante abdicazione all’ umanità di Frollo e nella narcotizzata indifferenza di Phoebus. E il buio richiama l’abisso; quelle vie interne che sono i moti del cuore, il quale, come scrive Hugo in una lettera coeva al romanzo, “è il più implacabile degli abissi”; e da cui lo scrittore

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sembra riprendere la struttura del romanzo, fatto sì di momenti esteriori e di folla, ma gestito soprattutto nei movimenti di una verticalità rovesciata. È la ricerca dell’invisibile dietro -e dentro- la rappresentazione spettacolare; il pedinamento del doppio sotterraneo, di quell’oscurità e di quel mistero da cui procedono sentimento del terrore, agitazioni, inquietudini, e che dà vita a ciò che Baudelaire definisce come le “zone misteriose, in ombra, le più affascinanti di Victor Hugo” .

Il tratto distintivo di Hugo sta proprio nella capacità di immergersi nelle zone oscure dell’animo umano, e tale caratteristica ha accompagnato tutta la sua produzione, sebbene abbia preso forme diversamente strutturate nel corso del tempo.

Jung, allo stesso modo, ci mostra come l’immergersi nell’oscurità dell’inconscio significhi, per l’individuo, venire a patti con le parti della personalità sconosciute e offuscate dall’Ombra. Ci spiega, inoltre, come questo ‘incontro’, se gestito in modo ottimale, permetta di aprire le altre porte di quel cammino psicologico ed evolutivo che Jung definisce “processo di individuazione”, quel viaggio interiore che l’uomo affronta per fornire a se stesso un nuovo assetto psicologico, che consenta una libera espressione della propria personalità.

Per raggiungere una piena individuazione bisogna, dunque, integrare necessariamente tutte le parti complementari della propria personalità e non rinnegare gli aspetti negativi, mefistofelici, del proprio spirito. Nell’artista, questa integrazione sembra assumere delle connotazioni particolari, perché pare quasi che essa indugi nella parte-Ombra, concedendole più spazio e maggiore libertà di azione.

Ricomporre la personalità, d’altra parte, implica l’integrazione delle sue varie parti: da sempre, i miti e la letteratura ci illustrano che siamo connaturatamente costituiti di elementi contrapposti. Questa contrapposizione rappresenta un archetipo stesso sia dell’esistenza umana che della natura del mondo: siamo fatti di princìpi contrastanti ma che, integrati idoneamente, riescono a trovare un giusto equilibrio.

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E’ a tale equilibrio, che la psiche aspira nel suo tentativo di integrare gli opposti. Ciò che deve essere integrato, secondo l’ottica junghiana, sono le tendenze complementari dell’uomo: il Conscio e l’Inconscio, la Persona e l’Ombra, l’Animus e l’Anima. Allo stesso modo, ciò che secondo Hugo deve essere raggiunta è la consapevolezza che tutti i contrari diverranno fratelli(Hugo, 1864). Questa integrazione, a sua volta, è un mito, in quanto richiama le forme alchemiche della produzione del ‘terzo elemento’, nonchè la tradizione dell’androginia, caratteristiche dei personaggi letterari. La cosa che più mi colpì, la prima volta che lessi Notre Dame de Paris, fu questa sovrapposizione di pensiero con Jung. Jung, come Hugo, sostiene che il segreto della completezza (il raggiungimento dell’archetipo del Sè) sia nella unione degli opposti, nella comprensione della compresenza nell’uomo di ‘bene’ e ‘male’ e, in sostanza, nell’integrazione di essi. Il parallelismo che il padre della psicologia analitica traccia con l’opus alchemico può essere fatto risalire al percorso di rinascita dell’individuo, che deve passare dall’uomo vecchio all’ uomo nuovo. Tutto questo permette una rinascita ma, per arrivare a questa meta, è necessaria la morte (o, per restare nella metafora, la nigredo). Lo stesso discorso viene, implicitamente, portato avanti da Hugo in Notre Dame de Paris. Se, infatti, esplicitamente esso ha molto del romanzo storico, è pur vero che esiste un altro livello, al di sotto della storia narrata, che ‘parla’ tramite i numerosi riferimenti simbolici e uno stile incentrato interamente sull’ossimoro. Notre Dame de Paris, si può dire, narra una storia ‘dentro’ la storia, è il racconto di un percorso interiore in itinere, quello dell’uomo che lo scriveva -in una nekya di cinque mesi di isolamento dal mondo- ma anche, poichè Hugo è un esemplare di quello che chiamiamo personalità creativa, un racconto che parla in termini collettivi. Scrive Jung:

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l’essenza dell’opera d’arte, infatti, non consiste nell’essere carica di singolarità personali (quanto più questo avviene tanto meno può parlarsi d’arte), ma nel fatto di innalzarsi al di sopra di ciò che è personale e di parlare con lo spirito e con il cuore allo spirito e al cuore dell’umanità. Ciò che è personale è limitazione, anzi vizio dell’arte.

(Jung, 1950, p.84)

La capacità di trascendere la specificità delle problematiche individuali, in favore di una esposizione universale dei conflitti dell’animo umano, è anche la capacità del genio di sublimare i propri contenuti inconsci per renderli fruibili dal lettore. Non si tratta di un lavoro cosciente di traduzione da un linguaggio privato ad uno universale, ma è la chiarezza stessa con la quale i fenomeni si manifestano agli occhi dell’artista a conferirgli una capacità espressiva di particolare efficacia.

La capacità creativa della mente umana, come la possibilità di dare corpo e struttura alla propria realtà psichica (prima che a quella oggettuale), sono le caratteristiche dell’artista, che riesce a esprimersi tramite immagini simboliche collettive.

Prendendo come riferimento la figura di Hugo, e concentrandomi sull’opera che, a mio parere, più rispecchia tutto questo, tra le sue produzioni, ho pensato di incentrare questo lavoro sui simbolismi dell’archetipo dell’Ombra presenti in Notre Dame de Paris, ripercorrendo dapprima il pensiero di Jung e dei rapporti tra la psicologia del profondo e la letteratura e, dunque, concentrandomi sulla tematica dell’Ombra e di come i suoi simboli vengano alla luce all’interno del romanzo.

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POST SCRIPTUM:

Questo blog è incline alla condivisione, come tutto ciò che su internet si trova. Non so come  proteggere le pagine internet, e in ogni caso sarebbe inutile. Quindi, lancio un appello diretto a chiunque capiti qui per caso, a qualsiasi studente che cerchi materiale per qualcosa, a ogni individuo che cerchi spunti per fenomenologizzare la propria figaggine: copiare questo post e incollarlo da qualche parte, usarlo per fini di studio, stesura di roba spacciata per vostra (mentre invece è mia) ecc, è un REATO A LIVELLO INTRINSECAMENTE UMANO…… quindi fate il favore … evitate,ok?

Siate tanto gentili da rispettare Jung, Hugo e Pandora.

Pandora Aion

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NON CI SONO PIU’ LE PUTTANE DI UNA VOLTA.

Ho questo tema sulla punta del pensiero da giorni. 

Devo affermare che, se solo fosse legale e se solo avessi una minima base di autostima in quanto femmina, io non credo che personalmente metterei una croce sopra all’idea di fare, come mestiere, la prostituta.  

Non posso dirlo di preciso, in questo contesto dimensionale(=questa realtà possibile) e con la mia autoconvinzione di rutto umano non lo farei. Piu’ che altro perchè se uno mi dicesse ” tu sei un rutto umano io non pago per venire a letto con te!” mi si spezzerebbe il cuore …

 

Io parlo di prostituzione vera, di un mestiere aperto alla libera professione (e relativo albo), scelto consapevolmente e tutelato dalla legge, come tutti i mestieri. Non delle prostitute-schiave da strada.

Perchè mai il mestiere più antico del mondo (e ci sarà un motivo se è tale, no?) viene oggi bannato a priori come umiliante per una donna? 

In primo luogo, la prostituzione c’è (illegalmente) anche al maschile.

In secondo luogo, ritengo piuttosto ipocrita il considerare ‘prostituzione’ l’azione di vendere sesso per denaro in senso stretto, ma poi arrogarsi (da parte della maggioranza delle persone e, purtroppo, delle donne) la libertà di chiamare chiunque “puttana” (spesso e volentieri riferendosi a qualcuno che apre le gambe meglio della sentenziante), da una parte e, dall’altra,  il non considerare tale ogni piccola offerta che un uomo fa alla donna (o alle donne) con la/le quali ha dei rapporti sessuali. 

Mi sfugge qualcosa: perchè va bene uscire con qualcuno e permettergli di pagare cene, merende, colazioni, spuntini di mezzanotte, cinema e teatro …. ma è assolutamente TABU’ il prendere direttamente dei soldi?

Azioni simil prostitutive ce ne sono tutti i giorni, da parte di ambo i sessi. 

Inoltre, 

pensavo proprio l’altroieri a un mondo dove questo ipocritca moralismo non esistesse: dove una donna (proprio in virtu’ di libera scelta: non può semplicemente piacere il fare sesso? E’, in fondo in fondo, così radicata la convinzione che la concessione carnale sia un privilegio da dare o meno? Questa visione FICACENTRICA?) può semplicemente di vendere sesso. 

Dopotutto, cosa differenzia la prestazione sessuale (in termini sanitariamente controllati, ovviamente) da quella che offrono massaggiatori, dentisti, estetisti, parrucchieri etc? 

Forse che un orifizio sia qualcosa di talmente prezioso da conservare gelosamente e offrire con la massima cura?

In questo mondo utopico dove i moralisti sono stati ammazzati da tanto tempo, potrebbero esserci accademie nelle quali le persone (uomini e donne) interessate possono apprendere le migliori modalità per soddisfare sessualmente (ed essere soddisfatti a propria volta) il/la partner. 

Sono piuttosto convinta che, se un’accademia del genere esistesse a oggi (e se fosse legale), conterebbe già molti più iscritti delle scuole guida (anche se non lo fosse: gli iscritti sarebbero anonimi e qualcuno sarebbe anche capace di pagare 2 volte!). 

In un mondo dove le persone fossero REALMENTE libere, scevre da tabù e moralismi, ho come l’impressione che molte donne farebbero un mestiere del genere. Perchè unisce esercizio fisico, piacere e soldi. Ogni tanto capita un cliente spiacevole, ma non è così in tutti i mestieri? 

Siamo sicuri che un uomo nerd sarebbe in ogni caso più spiacevole di una gallina isterica che fa una scenata dentro un salone di bellezza per una frangia troppo corta?

 

Io vorrei invitare le tante (a mio parere patetiche e tristi) pseudo femministe e tardone ex femministe a comprendere che, il discorso da me proposto, non è affatto in una prospettiva di umiliazione: proprio voi che avete “combattuto”( nella maggior parte dei casi: combattere=polemizzare a vuoto) per la libertà sessuale, per le pari opportunità (QUINDI, ANCHE DELLE OPPORTUNITà DI SCELTA DEL PARTNER), scendete così spesso in campo bannando non solo una IDEA-come quella di cui sopra-come ‘maschilista.. ma anche avventandovi contro chi la esplicita’? 

 

Non c’è nulla di più pericoloso e, al tempo stesso, patetico, di una femminista di mezza età. 

Specialmente se a ciò è associata la presunzione di avere semrpe e comunque ragione, senza soffermarsi un momento sull’ascolto dell’interlocutore e sul paradosso semantico dei propri termini di discorso (quando si dice ‘capire qualcosa a livello numerico ma non analogico….). 

 

Tra l’altro, ne incontro così tante che si autodefiniscono ‘femministe’ ( intendendo, con tale termine, non l’originaria lotta per la parità, ma la inespressa convinzione che ‘la donna ha diritto di fare – o non fare!!-questo e quello perchè un secolo fa l’uomo, tra i vari terribili delitti quotidiani, la montava – perchè ovviamente c’era “essere montata”, non “montare”-?)………….

……………………………………….E poi…….(rullo di tamburi)….

…. poi, aprendo le loro carte di identità -oh guarda!!!- il cognome del marito!! (nella maggior parte dei casi perchè è più figo o prestigioso del proprio, anche se non lo ammetteranno mai)

…..e la sera… quando vanno all’opera con anelli-che-nemmeno-una-principessa… anelli regalati da chi? Dal partner! E che fa un partner? SE LE SCOPA ( o quantomeno vorrebbe: perchè ho come il sospetto che nella conta ci si ritrovino molte ragnatele)! 

 

Ma questa non è prostituzione.

Questo è legittimo uso della coniugalità: la donna assume il cognome del marito. 

O dimostrazione di bene: ‘un diamante è per sempre’.

 

‘Per sempre’ sono solo le nostre radici antropologiche. 

Da sempre gli esseri umani hanno pagato per il sesso, e sempre continueranno a farlo: ci si riferisca a banconote, assegni o denaro travestito da favori e oggetti. 

Ma fate il favore.

 

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Ἀνάγκη. catastrofe o rivelazione? By Pandora

Notre Dame de Paris è un romanzo sulla morte. E Ananke, la parola incisa su una delle torri della cattedrale, sta a fondamento dell’opera. La breve introduzione a Notre Dame de Paris, che descrive l’incontro tra il narratore e la parola Ananke scolpita su un muro della cattedrale, mette in risalto come l’iscrizione fosse, poi, stata cancellata. E scomparso era anche l’uomo che l’aveva incisa, come anche la cattedrale stava scomparendo, perchè al linguaggio della pietra si stava sostituendo quello della stampa. Il senso del dileguare assume implicazioni immense nel romanzo. Agli esseri di luce (Vera-la Esmeralda- e falsa -Phoebus) si contrappongono gli esseri di ombra (Vera- Frollo- e falsa -Quasimodo).

In entrambi i casi, è presente una Ananke di pregiudizi, che pesa sulle nature individuali, soverchiandole. La forma più profonda del conflitto è il nucleo tragico che ruota intorno a questo concetto, da intendersi, come già detto, nel senso di dispiegamento dell’elemento ostacolante alla parabola individuale. Ananke è la rete in cui l’individuo/mosca – per usare le parole dell’Arcidiacono Frollo- rimane catturato, ed è resa ancora più viva dal fatto che è tradotta in un simbolo vivido e inquietante: quello del ragno. La parola, infatti, suona molto simile ad Aracne e una delle metafore unificanti del romanzo è proprio quella della mosca uccisa dal ragno.

Ananke è imprigionamento. Nei dogmi, nel ruolo, nella tela della società. In quella che potremmo definirePersona. L’Ananke dei dogmi non è la sola in Notre Dame: non meno pesante della superstizione, infatti, è il pregiudizio. Esso è presente nel testo anche sotto forma di peso delle apparenze, che in qualche modo pre-scrivono un destino a chi ne è portatore.

Un’altra forma di peso/costrizione, anch’essa legata all’apparenza, ma in grado di agire in maniera più drammatica sul destino dei singoli, è quella dell’abito talare, segno esteriore dell’assunzione, su di sè, di norme e divieti cui non è possibile sottrarsi, una volta pronunciati i voti.

140Così, la gabbia di una condizione esteriormente rappresentata si risolve in sventura, qualora l’adesione al sistema assoluto e totalizzante cui rimanda non sia in consonanza con i moti del proprio essere. Questa è la parabola individuale di Frollo: la sua scelta clericale (dettata dalla famiglia, più che scelta personale) si trasforma in una mortale scelta di Ananke. Frollo, per dirla con le parole di Jung, vive incastonato in quella che potrebbe essere definita Persona, egli s’identifica con il suo ruolo arrivando a confondersi con esso, allo stesso modo in cui Quasimodo si confonde con l’architettura della cattedrale e con il suo esserne il custode.

E’ da notare come, nel primo capitolo del libro V, l’arcidiacono fosse stato rappresentato appoggiato al libro intitolato “dell’inevitabile o del libero arbitrio”, allusione alla lotta tra costrizione e inclinazione, tra libertà e necessità. Il primo incontro con la fatalità è, dunque, con una parola incisa: il racconto che ne segue trasporta il lettore indietro nel tempo, nel contesto in cui è stata tracciata e, poi, alla figura che emblematicamente la riassume.

Tuttavia, è attraverso gli occhi di un personaggio che rappresenta il ‘basso’ e ‘l’assenza di anima’, che la si vede imprimere. Lo sguardo è quello di Jehan Frollo, fratello dell’arcidiacono e sua nemesi o, per dirla in termini junghiani, sua Ombra.

Nel VII libro (capitolo 4) viene, poi, rivelata l’identità della persona (Frollo) che ha inciso la parola sul muro, in una sorta di scrittura automatica che stigmatizza la sua condizione di soggetto agito da forze che lo sovrastano e che non è in grado di dominare (la ragnatela delle passioni; la ragnatela delle ossessioni; la ragnatela delle costrizioni). E’ solo nel capitolo successivo, il V, che il contenuto del relativo destino verrà illustrato mediante la figura del ragno che cattura la mosca innocente. Anche il ragno della visione è, comunque, un essere innocente, in quanto uccidere rientra nel suo istinto.

E’ lo stesso Hugo, per bocca di Frollo, a parlare di simbolo:

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“Oh, sì!” continuò il prete con una voce che sembrava provenirgli dalle viscere,”ecco un simbolo di tutto. Vola, è allegra, è appena nata; cerca la primavera, l’aria aperta, la libertà; oh,sì, ma basta che sbatta contro il rosone fatale, il ragno vien fuori, il ragno schifoso”[..] Ahimè! Claude, il ragno sei tu, e tu sei anche la mosca![…]Povera danzatrice, poverina! Volavi verso la scienza, la luce, il sole, non avevi altro pensiero che arrivare al pieno chiarore della verità eterna; ma, precipitandoti verso la finestrella abbagliante che è dà sull’altro mondo, sul mondo della chiarezza, dell’intelligenza e della scienza,[..]non hai visto quella sottile ragnatela tesa dal destino tra la luce e te, ti ci sei gettato a corpo morto, miserabile pazzo, e ora ti dibatti, con la testa spezzata e le ali strappate, tra le antenne di ferro della fatalità. [..] Lasciate fare al ragno!”

(Libro VII; Cap.5)

La lotta simbolica tra i due insetti si complica quando Frollo finisce con l’identificare sè stesso non più nel ragno, ma nella mosca:

E quand’anche tu fossi riuscito a romperla, quella temibile tela, con le tue ali di moscerino, credi che avresti potuto arrivare alla luce? Ahime! Quel vetro che c’è un poco più avanti, quell’ostacolo trasparente, quel muro di cristallo più duro del bronzo che separa tutti i filosofi dalla verità, come l’avresti oltrepassato? O vanità della scienza! [..]Quanti sistemi alla rinfusa urtano contro quel vetro eterno!

(Libro VII, Cap. 5)

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Il ragno, così, diviene Ananke, la pietrificazione che gli sbarra la strada. Da un lato, coincide con il suo ruolo, che lo imprigiona e gli impedisce di aderire al suo lato istintuale e, dall’altro, con gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento della realizzazione alchemica (ricordiamo che l’arcidiacono Frollo è anche un alchimista). Se, dunque, Frollo è il ragno/mostro di Esmeralda, la società ecclesiastica è il ragno/mostro di Frollo. L’intero romanzo può essere letto, analizzandolo in termini individuali, come una elaborata serie di variazioni intorno ai temi dell’oppressione e dell’incarceramento. Emerge, infatti, un’immagine del destino come costrizione cui sembra impossibile sottrarsi: Frollo nell’abito talare, Quasimodo in quello della deformità, la reclusa nela cella (fisica e metaforica) del dolore, mentre Esmeralda tra la cella e il circuito chiuso cattedrale/asilo. La pietrificazione, in cui sono incarcerati i personaggi e la società di Parigi, conduce alla morte. E la morte, qui, è guardata: letteralmente e metaforicamente. La morte della Esmeralda è osservata dallo sguardo di Frollo; lo stesso sguardo dell’arcidiacono è visto, inesorabilmente, dall’occhio ciclopico di Quasimodo, che nella sua istintualità, traduce quel peso metaforico in un atto, costringendolo a seguire letteralmente la sua inesorabile traiettoria verso il basso.

Pandora

 

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‘Aiòn

“Se tu conoscessi il tempo come lo conosco io non oseresti parlarne con tanta disinvoltura; lui è un signor Tempo!”

disse il Cappellaio Matto ad Alice.

Tra il Tempo di cui parla Alice e quello del Cappellaio c’è una differenza, quello di Alice è il Tempo che conosciamo bene, quello degli eventi che si susseguono uno dopo l’altro, quello che a volte ci è nemico a volte amico.

È quello delle azioni che si compiono nel presente, è fisico, ciclico, corporeo, variabile; si snoda su di una linea retta, è quello di tutti i giorni, quelli frenetici e quelli lenti, incastra le nostre abitudini giorno dopo giorno, insomma è Kronos. Il Tempo del Cappellaio,invece, è quello dell’arte, intesa nel suo senso più completo e profondo: è AION, Tempo pretemporale( ma senza pioggia!!),tempo privo di dimensioni.

Un’azione è sempre già accaduta e sta sempre per accadere….” è sempre l’ora del tè”.

Aion è incorporeo, il suo esistere non dipende dal compiersi dell’azione, non lo riguardano i fatti fisici ma le azioni pure. E,l’arte, cos’altro è se non un’azione pura?

Unica, fine a se stessa, inimitabile ma riproducibile all’infinito, dura in eterno e ripropone in eterno la stessa azione, è dinamica nella sua staticità, lei appartiene all’Aion.

Ma cos’è, anzi chi è Aion? Deleuze propone che

«Aion si estende in linea retta illimitato nei due sensi. Sempre già passato e eternamente ancora da venire, Aion è la verità eterna del Tempo; pura forma vuota del Tempo […] è il presente senza spessore, il presente dell’attore, del ballerino e del mimo puro momento perverso. È il presente dell’operazione pura e non dell’incorporazione. Secondo Aion soltanto il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo. Invece di un presente che riassorbe il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all’infinito in passato e futuro, nei due sensi contemporaneamente».

L’ Aion è l’infinito, il Tempo del puro divenire, dell’evento in quanto tale; il suo rapporto con gli eventi è al di fuori di ogni causalità fattuale, in rapporto solo con gli eventi e non con i fatti e con l’essere.

È con l’opera d’arte, intesa come evento creativo, e con la rappresentazione scenica che l’eterno desiderio dell’uomo di gestire il Tempo sembra realizzarsi.

L’azione si prolunga all’infinito.

Con Aion l’azione è sempre appena passata o ancora da compiersi. Questo permette di evitare lo sviluppo degli eventi lungo una linea verticale che porta un azione dal compimento alla fine. Il compiersi e finire dell’azione corporea non c’è più, rimane l’evento puro, dove non c’è né dolore né evoluzione; l’opera d’arte è completata… il suo compiersi avviene in Kronos, ma il suo compimento, la sua forma e durata eterne, la sua essenza e anima sono in Aion.

Aion è il Tempo del sempre passato e sempre futuro, Kronos, come dice ancora Deleuze: ” la relatività vera, per Kronos, non è quella del passato e del futuro verso il presente, ma la relatività dei vari presenti gli uni rispetto agli altri. Kronos è corporeo, il suo passato è ciò che resta dell’azione di un corpo, o per meglio dire, è ciò che resta della passione che un corpo ha impiegato nel compiere l’azione. Il suo futuro è la medesima azione in attesa di proiettarsi su un altro corpo per compiersi.”

Per Aion l’atto del compiersi non esiste, l’azione rimane lì, svuotata, pura, eterna.

È il momento finale dell’opera d’arte quello che la consacra dall’attimo in cui viene compiuta, è il momento in cui l’artista smette di muoversi nel tempo ordinario e fissa l’azione in un attimo di immutabilità; quello in cui creatività e tecnica si fondono in unità e danno vita all’Opera d’Arte. Dunque se al mondo reale spetta

«il Kronos delle azioni dei corpi e della creazione delle qualità corporee»

invece al mondo dell’Arte spetta

«l’Aion, il luogo degli eventi incorporei e degli attributi distinti dalle qualità; popolato da effetti che lo frequentano senza mai riempirlo».

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i personaggi fanno l’autore .

In tutta la sua opera, c’è l’eco dell’esistenza dell’autore ma, soprattutto, dell’uomo Hugo. I sentimenti, le azioni, i dialoghi dei personaggi sono quelli che egli stesso ha provato, sono le situazioni che la sua anima ha vissuto e, così, la sua arte si nutre della sua vita.
Un senso di vuoto spirituale si diffonde su tutto il romanzo, colpisce tutti i personaggi e, è evidente, anche lo stesso autore. E’ rivelatore che Hugo informi il lettore che la cella di Frollo, in cima alla torre, era stata costruita da Hugo de Besancon, segnale doppiamente significativo in quanto l’omonimo (Hugo) è accoppiato al paese di nascita dello scrittore.
Il gobbo, che vive in un esilio all’interno della cattedrale, è una creatura non amabile -come non lo era Hugo stesso nel 1830- che esprime il suo talento nel suono delle campane e dove conduce Esmeralda. Quasimodo ama la zingara, di un amore non contaminato da alcuna sovrastruttura collettiva, in quanto è cresciuto nell’isolamento della torre della cattedrale.
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Quasimodo è un uomo “formato a metà”: inoltre è reso sordo, menomato, proprio a causa della sua arte. A causa di tutto ciò, finisce con l’ostacolare la salvezza della donna.
Anche Hugo ama Adèle, sua figlia (nata peraltro il giorno dopo l’inizio della stesura del romanzo), ma ‘sordo’ e concentrato solo su di sè nel ruolo politico e lavorativo, favorirà il suo cammino verso la follia. Anche Hugo, come Quasimodo, non ricevette sostegno nell’evoluzione della propria umanità e non fu mai un uomo “appartenente a sè stesso”: fu la madre, Sophie Hugo, a spingerlo verso la letteratura. A quell’epoca, infatti, letteratura e poesia avevano una preminenza anche sulla conduzione degli affari dello Stato, poichè la folla si lasciava guidare dai poeti.
Ed ecco, dunque, che Hugo è poeta e guida della folla: è, quindi, anche Frollo e Gringoire. Ciascuno dei due personaggi è una incarnazione della figura autoriale, della passione, o pseudo passione, amorosa, nonchè di quella poetica e conoscitiva; delle loro miserie (delle quali si ride) e dei loro rischi (sui quali si medita).
L’arcidiacono racchiude in sè, simbolizzati, quegli elementi che contraddistinguevano la vita dello scrittore: l’amore, il talento, la forza della cultura da un lato e il rigore, la forma, la regola sociale – in una parola, la Persona- che possono incatenare tanto un prete quanto un rivoluzionario, dall’altro. (Santori, 2009, p.381)
Frollo, “signore” della Cattedrale, non è altro che un doppio di Quasimodo, è la rappresentazione dello Hugo sociale, lo scrittore al servizio della scienza, un uomo inchiodato alla necessità/impossibilità di reprimere le proprie passioni. E’ l’uomo che, nascosto dalla notte, lascia agire l’altro lato di sè, ovvero Quasimodo, un insieme di deformità.
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La sua mente, sofferente di una deformazione professionale che accoppia sempre la giustizia alla fede, non può accettare la sublimità del miserabile, non può introiettare il paradosso di un ordine etico invertito, dove il criminale possa non essere un peccatore.
E, alla fine, Frollo viene ucciso proprio da Quasimodo che, nell’atto di spingerlo giù dalla torre della cattedrale (quella torre dove l’arcidiacono teneva custodito il suo sapere e le sue arti alchemiche), esclama: “Oh, tutto ciò cui ho voluto bene!”. (Libro XI, Cap.3)
Gli elementi autobiografici divengono ancora più eloquenti in una prospettiva psicotematica. La figura di Caino getta la propria ombra sul rapporto che lega Frollo al giovane fratello Jehan, della cui morte egli si sente, infine, responsabile.
“Caino, cosa hai fatto a tuo fratello?” (Libro VII, cap.4). L’ossessione del fratricidio è ricorrente nell’opera di Hugo e assume pregnanza particolare proprio negli anni intorno al 1830, nei quali il fratello Eugene venne rinchiuso nel manicomio di Charenton. E’ degno di nota, a questo proposito, che nel romanzo Frollo, avendo perso i genitori quando il fratello era ancora in fasce, lo affida in balia a Bicetre, luogo famoso per il suo manicomio. Senso di colpa e vuoto spirituale caratterizzano i momenti di maggiore lucidità dell’arcidiacono. Nel capitolo intitolato Lasciate ogni speranza, Frollo dice di portare dentro di sè il freddo della disperazione:”Ho la notte nell’anima” (Libro VIII, cap. 4). Se Frollo è l’uomo nero, Gringoire è il trasognato, colui che procede a un piede da terra.
Entrambi, seppure con modalità diverse, fraintendono il reale, il processo conoscitivo e, soprattutto, sè stessi. Sono, entrambi, vittime di una cronica incapacità di vedere e di vedersi. Il primo, per una ipertrofia dell’impulso conoscitivo, mentre il secondo per quella dell’impulso immaginativo.
Il primo, Frollo, muore emblematicamente cadendo dall’alto della cattedrale, simbolo della sua personale Babele, della sua soggettiva scalata al cielo. Il secondo, invece, è liquidato come colui che sopravvive a sè stesso, gli rimane in
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eredità la capra di Esmeralda: quella di Gringoire è una ‘non-morte’, il riso che suscita è un modo di Hugo di ridere di sè stesso mostrando come, tutto sommato, il ridere sia una via di salvezza. Entrambi i personaggi, come lo scrittore, sono dietro le quinte. La prima apparizione di Gringoire è dietro un pilastro, dal quale spia la messa in scena della sua “geniale” rappresentazione (Libro I cap.2).
L’altro, perso tra la folla, cupo e inquietante, è colto dallo sguardo del primo mentre è intento a spiare la danza vitale della Esmeralda, che in questo frangente è l’incarnazione della vita. Esmeralda, la zingara, è il polo di attrazione di tutto il carnevale umano di Notre Dame de Paris.
E’ un personaggio senza un nome (Hugo stesso, nel testo originale, la denomina con un mot), appartenente al bassofondo, in quanto zingara, ma non realmente, in quanto non autenticamente gitana. Dalla Esmeralda è causata la ‘caduta’ di Frollo, che passa dalla quasi raggiunta perfezione alchemica e spirituale alla brama dirompente di una carnalità mai stata viva.
Verso Esmeralda va il desiderio di Quasimodo, il sub-umano che scopre l’amore; come anche il desiderio di Phoebus, il falso sole. In Esmeralda inciampa Gringoire, ella è la sua salvezza accidentale dalla morte fisica, ma non da quella umana, poichè Gringoire è un mezzo-uomo: anche nella narrazione, non è altro che una caricatura di poeta, di marito, di discepolo e di uomo.
Esmeralda è più un’idea che una donna: è, come Gringoire, nella realtà solo per metà, alla ricerca di un amore che le doni un nome e di una madre immaginata.
Anche nella sua prima apparizione, non ha presenza fisica, poichè la sua epifania sta con il suo mot gridato dalla folla, ed è connotata da vari elementi, tra i quali spicca la Salamandra. La Esmeralda è enigmatica e carica di senso, come le formelle alchemiche che adornano Notre Dame. Prima che si mostri, senza che si mostri, viene introdotta
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al lettore mediante i suoi attributi. E’ vergine ed è smeraldo (simbolo della pietra filosofale). La salamandra, nella iconografia medioevale, rappresenta il giusto che non perde mai la pace dell’anima e la fiducia, nemmeno fra le tribolazioni e, per gli alchimisti, è il simbolo della pietra trascendente. Quest’ultima, a sua volta, è lo strumento simbolico usato per ottenere la trasmutazione.
La donna Salamandra è la più bella, perchè è costituita dal fuoco universale, principio di tutti i movimenti della Natura, di cui ella abita la sfera più elevata.
(Cit. in Feroldi, 2008)
E’ l’oro nel fuoco, che Frollo non riesce a riconoscere. Curiosamente, i temi della Esmeralda ricalcano quella che sarà la vita di Adele Hugo: la rovinosa scelta della figlia del poeta ricadde su Pinson, ufficiale che, in Phoebus, ha il suo doppio letterario. E’ perchè non riesce a reprimere la propria richiesta di amore, che la zingara viene scoperta e portata a morire. Per la stessa richiesta, Adèle sprofonderà nella follia, rendendosi una sorta di reclusa e, potremmo dire, somigliando all’altro personaggio femminile del romanzo, la ignara e folle madre di Esmeralda, rinchiusa in una cella e conosciuta da tutti proprio come la reclusa. Accanto ai personaggi principali, non è da trascurare il ruolo che hanno altre due presenze: la Cattedrale e il peuple. Il peuple è il “grande assente”: deve ancora essere creato, è una massa, non un popolo. Non possiede coscienza collettiva, è presentata solo come una turba senza personalità, a livello bestiale, animata dall’amore per la distruzione. E’ da ricordare come, nel 1830, anche Hugo fosse nel pieno della crisi dei suoi valori politici. Le molte allusioni topiche ad avvenimenti contemporanei che si colgono nel romanzo sottolineano la natura ibrida e transizionale dei tempi.
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Come la sua generazione, Hugo è ossessionato dal ricordo della rivoluzione del 1789. Le incongruenze del 1830 sono, così, messe in rapporto con quelle della Restaurazione: in tal modo egli stabilisce, fin dall’inizio, che la”ibrida regalità” di Luigi Filippo non è altro che una “utile transizione”: se i tempi non sono maturi per una vera Repubblica, essa si farà. Per il momento, però, quella del luglio 1830 è una rivoluzione fallita, proprio come nel romanzo fallisce l’assalto portato dagli abitanti dei bassifondi contro la Cattedrale. Il popolo non è pronto, non è ancora consapevole della propria identità.
E’ significativo, poi, che l’unico popolo rappresentato in Notre Dame de Paris sia quello dei bassifondi di Parigi: c’è una città spaventosa, all’interno della città, con le proprie leggi. La moltitudine dei fuorilegge, però, è il motore del cambiamento.
Questo proletariato senza leggi, potremmo dire ‘prepolitico’ (perchè sarà lo stesso proletariato che farà partire la Rivoluzione), è paragonato a una verruca nel corpo della società. D’altra parte, però, Hugo è esplicito nel riferirsi alla massa quanto lo è nel dipingere le vicende individuali: la “buona gente di Parigi” (il bon populaire parisien) non è meno crudele e bestiale di quest’orda di mendicanti.
Come gli altri protagonisti, come Victor Hugo che scriveva Notre Dame de Paris chiuso in una stanza per cinque mesi, il popolo è una forma ibrida. E’ Hugo pronto per la rivoluzione? Scegliendo la Cattedrale come soggetto, egli obbedisce a un impulso conservatore; tuttavia, il vero messaggio del romanzo è che questo “libro della tradizione” sarà sostituito da un’altra sorta di libro: Ceci tuera celi, “questo ucciderà quello”.
Questo pensiero è raccontato mediante Frollo, anche se l’arcidiacono e l’autore rappresentano un pensiero opposto. Entrambi considerano la stampa come un’invenzione di portata storica. Per Frollo essa si identifica con il vacillare del potere sacerdotale e l’erosione del dogma, è una invenzione anticlericale. Per il narratore, invece, l’architettura era la “grande scrittura” dell’umanità; opera di popoli interi, realizzazione collettiva. Tuttavia, essa non era in grado nè di parlare
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al popolo, nè in nome del popolo, poichè le sue forme, intese a celebrare l’immutabilità, erano resistenti a ogni forma di cambiamento. La rigidità del dogma era inscritta nelle pietre: ciò che, per Frollo, è la caduta di un mondo, in realtà è l’inizio di un mondo nuovo. Vorrei qui riprendere la metafora della torre di Babele: significativamente, la stessa metafora che descrive la febbrile attività stampante dell’uomo uscito dal Medio Evo rimane architettonica: la stampa è, infatti la seconda torre di Babele del genere umano (Libro V, cap.2).
Le ultime parole del capitolo si possono leggere come simbolizzzanti una contraddizione interiore che tutta l’opera di Hugo cerca di risolvere: in uno scritto degli anni dell’esilio, Philosophie. Commencement d’un livre, egli avrebbe scritto: Tutto questo mondo è un fenomeno di persistenza e trasformazione (XII, 16).
Ogni parola, ogni testo, come ogni pietra portata a una costruzione, non comporta solo un’aggiunta, ma anche una trasformazione. La conclusione del capitolo Ceci tuera Celi allude, però, a un disagio ancora maggiore. Hugo, infatti, traduce l’immagine biblica della Torre di Babele in una metafora positiva: la torre che vorrebbe raggiungere il cielo è il simbolo della grandiosa ambizione umana; la confusione delle lingue con la quale Dio la punisce diviene, invece, una varietà feconda, una rappresentazione dell’armonia dei contrari: il caos apparente non è altro che il ronzio del gigantesco alveare della creatività umana.
Il simbolo di Babele viene a rappresentare sia la scrittura che l’architettura: nè l’edificio nè il testo, tuttavia, possono essere concepite come completabili, perchè sono entrambe opere di transizione. Se, poi, in Notre Dame de Paris, gli animali sembrano uomini e gli uomini animali, è perchè i confini, le frontiere si annullano entro ciò che Hugo concepisce come Pandemonio di una visione totale. Tale sorta di visione comporta la necessità di una trasgressione, e ciò che più viene rifiutato sono le barriere convenzionali fra bello e brutto, bene e male. Hugo, infatti, ricercava una nuova visione poetica, capace di produrre la feconda unione degli opposti: nella
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prefazione a Cromwell, egli proclamava che “tutto è correlato” e, per questo, lo scrittore deve contribuire ad abbattere le strutture rigide esaltando, in loro vece, il senso del mistero e dell’incompiutezza. In tutte le sue opere si può notare come gli elementi più disarmonici si risolvano, infine, in una unità superiore: tutti i contrari diverranno fratelli.
[la creazione] è bene e male, gioia e dolore, uomo e donna, ruggito e canzone[…]La natura è un eterno bifronte e questa antitesi, da cui viene l’antifrasi, si ritrova in ogni abitudine umana, nella fiaba e nella storia, nella filosofia e nel linguaggio. […] Prima di espugnare dall’arte questa antitesi, espungetela dalla natura.
(Cit. in Feroldi, 2008)
Se il compito del poeta è, a livello collettivo, quello di servire la causa delle trasformazioni, può trovare significato il fascino che esercita il concetto di Ananke, sia a livello individuale che sovraindividuale. La trasformazione passa, inevitabilmente, per una forma ibrida, in cui passato e presente coesistono: traslando questo meccanismo nella dinamica che intercorre tra l’autore e la sua creazione, appare evidente che, mediante una visione onniscente quale quella che il narratore ha nel suo romanzo, i temi personali possano trovare una forma strutturata, nonchè una possibilità di risoluzione. Il Victor Hugo che scrive nel 1830, è una creatura ibrida in una epoca ibrida, è parte naturante di una trasformazione personale quanto di quella collettiva.
Per la sua portata allegorica, Notre Dame de Paris è una sorta di Apocalisse (nel doppio senso di Catastrofe e Rivelazione): la dimensione simbolica del romanzo si impernia, in primo luogo, sulla preponderanza di personaggi collettivi o astratti, dando modo di creare, accanto alla parabola individuale di ognuno, una sorta di Romanzo della folla.
PANDORA

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CONCLUSIONE

Proiettare i conflitti interiori in una dimensione transizionale, per dirla con le parole di D. Winnicott, permette di poterli gestire in un’area intermedia che rende possibile l’esteriorizzazione dei contenuti più problematici. Questo è ciò che innesca il meccanismo identificatorio attraverso cui i grandi autori creano dei personaggi letterari che vivono, quasi in modo sostitutivo, le proprie angosce e aspirazioni più intime e segrete.

Il poeta racconta ciò che conosce e, quindi, ciò che un personaggio letterario sente è ciò che, in realtà, riecheggia anche nell’animo dell’autore. Quella che l’artista possiede, ovvero la possibilità di esistere mediante un proprio sostituto che viva esplicitamente la vita e i conflitti che la realtà gli impedisce di mettere in atto, è una possibilità conoscitiva in più, una particolare sensibilità creativa che gli consente di trasformare i propri conflitti personali in materia di elaborazione letteraria. Tale processo, in base al quale la potenzialità creativa dell’individuo elabora la materia dell’inconscio tramite una indiretta via intellettualizzante, ma che consente anche di dare voce alle più profonde passioni umane, è da Freud definito come Sublimazione.

Frollo, prendendolo quale alterego principale dell’autore, è dapprima un bambino studioso; poi, da giovane prete, è austero, grave, serio, ardente nel perseguimento della conoscenza- ha molto in comune con l’immagine che Hugo conservava di sè adolescente.

Se poi vogliamo prendere in esame l’aspetto della neccessità di adattamento: nella prima fase del nostro rapporto con il mondo esterno si tende, spesso, a privilegiarlo; il che comporta di solito la rimozione (inconscia) di componenti

156anche essenziali della nostra personalità: i valori culturali predefiniti offrono un riparo, un orizzonte di significati, ma disumanizzano. Il ventottenne Hugo, negli anni di Notre Dame de Paris, non ebbe bisogno di adattarsi per essere stimato, benvisto e ammirato. La conseguenza inevitabile, però, era la forzata coabitazione interiore di istanze divergenti e, talvolta, antitetiche e conflittuali.

Quando Hugo inizia a identificarsi con Frollo è, indiscutibilmente, un’anima divisa. I conflitti di cui si parla sono interni allo stesso personaggio, in cui l’autore si specchia, donandogli le proprie contraddizioni. In quegli anni, desideroso sia di conquiste spirituali che materiali, lo scrittore era molto esposto al senso di colpa. La vicenda di Frollo ed Esmeralda è esemplare in questo senso: Frollo non ha esitazioni nel passare sopra a tutto e tutti pur di ottenere quello che desidera, e non ne ha nel lasciare che la sentenza di morte della donna sia eseguita, mentre lui guarda dall’alto della cattedrale (che torna a essere l’illusorio rifugio dell’arcidiacono, prima che Quasimodo lo butti giù). L’anima divisa di Frollo, a sua volta, rispecchia una cultura altrettanto divisa, bipolare, monolitica solo a fasi alterne e mai mai per gli spiriti più sensibili, il destino dei quali è quello di cogliere fino in fondo a sè stessi anche le voci più dissonanti. Il conflitto ruota intorno alla lotta tra un cinismo disincantato (quello di Hugo nel 1830) e gli slanci idealistici, a un passo dall’utopia. Questo contrasto è strettamente legato a un altro conflitto irrisolto: quello tra libertà e necessità. Tra gli altri conflitti irrisolti ci sono, poi, quello tra il bisogno di ancorarsi a solide certezze e, insieme, l’insofferenza per la rigidità di strutture vincolanti. Si tratta di una serie di conflitti interiori che giacciono nell’animo dell’autore.

La paura per la minaccia dell’emersione dell’inconscio costringe l’uomo a correre via e, nel suo allontanarsi, a nascondersi e celarsi. Tuttavia, voltare la faccia di fronte alla minaccia del proprio sentire non significa mai non avvertirne l’esistenza, né implica l’essere inconsapevoli che proprio ciò che appare oscuro e minaccioso è, in realtà, il centro della propria interiorità.

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L’uomo possiede numerose vie per esprimere la propria essenza, e una di queste è la creazione artistica. Questo canale risulta essere privilegiato perchè consente non soltanto l’espressione dei propri contenuti interiori in un modo privo di condizionamento esterno, ma anche una elaborazione di questi personali vissuti. La creazione artistica -in questo caso, quella letteraria- permette di rivelare, per vie traverse, i contenuti che emergono dalla mente dell’uomo e dal suo stesso inconscio.

Esprimerli in modo indiretto, tramite i personaggi ai quali sono date vita e voce, consente di distanziarsene e di sentirsi meno coinvolti nel giudizio sociale. Il biasimo del lettore per i personaggi inventati è, infatti, ben diverso da quello che gli uomini proiettano l’uno sull’altro.

Lo scrittore può, così, giocare con i propri personaggi, celarvisi dietro e far parlare le proprie zone di Ombra. I personaggi inventati diventano, così, parti scisse della personalità dello scrittore, che in tal modo consentono di mettere in atto, tramite la maschera letteraria, ciò che nella vita egli non riesce a rendere cosciente.

Eventi di vita privata dell’autore e, in particolare, gli affetti a essa soggiacenti, si insinuano nella sua produzione letteraria. Il nodo complessuale del romanzo, riferendoci alle dinamiche dei personaggi che vi trovano vita, si può trovare in una consonanza psicologica di base che accomuna autore e personaggio.

Nella vicenda che Notre Dame racconta, Hugo rappresenta il desiderio di ogni uomo di spezzare le catene del mondo, che con le regole imposte svilisce e ottenebra gli sforzi dell’uomo. Il fatto che, tutti, viviamo in base a una menzogna, e non secondo le proprie istanze interiori, è ciò che ogni individuo prima o poi si trova a dover fronteggiare. Frollo subisce il crollo di ogni illusione.

La particolarità dell’artista è proprio quella capacità, a lui peculiare, di esistere mediante un proprio sostituto che viva ciò che, nella realtà, egli non riesce a mettere in atto: è, in definitiva, una sorta di possibilità conoscitiva in più, una

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particolare sensibilità creativa che gli permette di trasformare i propri conflitti in materia di elaborazione e produzione letteraria. La strada preferenziale, per un artista, è sempre l’elaborazione dei propri vissuti mediante la propria opera.

Probabilmente Hugo gestisce il proprio sentire mediante la manipolazione della figura letteraria che meglio può incarnare gli aspetti grigi e oscuri della sua personalità, seppure in modo simbolico. Se, è vero, a livello esplicito l’autore si ritrova nella dimensione collettiva della società rappresentata, è anche vero che ci sono sempre delle figure che parlano, più di altre, del mondo interiore del loro creatore.

Per questo motivo, ho preso particolarmente in esame il caso del personaggio Frollo in quanto, tra tutti, è quello dentro il quale sono resi più esplicitamente gli stessi conflitti che animavano Victor Hugo all’epoca in cui scriveva Notre Dame de Paris.

A ben vedere, in realtà, all’interno del romanzo non c’è che tale personaggio: ogni altro non è che la proiezione del suo conflitto interiore. L’arcidiacono, infatti, agisce e interagisce con quanti lo circondano, ma in realtà sta avendo a che fare con sé stesso, con i suoi aspetti di Ombra via via emergenti.

Clàude Frollo, in fin dei conti, non è altri che Hugo stesso il quale, mediante tale personaggio, ricerca una soluzione alle proprie dinamiche interiori. Questo, comunque, accade per ogni opera d’arte in cui l’autore usi coinvolgimento e proiezione, poiché tutti i personaggi di un’opera letteraria sono manifestazioni psichiche del loro autore, e pertanto rappresentano delle realizzazioni ampliate di parti di personalità di questo.

Tuttavia, è il personaggio dell’arcidiacono a incarnare il nodo complessuale di Hugo, all’interno del quale si esplicano due dimensioni psicologiche fondamentali: il desiderio e la colpa, che generano l’aspetto drammatico della storia narrata e la sua “scalata verso il basso”.

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Con Giobbe inizia il dramma [..] Quaranta secoli fa mette in scena Jehova e Satana; il Male sfida il Bene, ed ecco inizia il dramma. Luogo dell’azione, la terra, l’uomo è il campo di battaglia.

(Hugo, 1864, p.39)

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POST SCRIPTUM:

Questo blog è incline alla condivisione, come tutto ciò che su internet si trova. Non so come proteggere le pagine internet, e in ogni caso sarebbe inutile. Quindi, lancio un appello diretto a chiunque capiti qui per caso, a qualsiasi studente che cerchi materiale per qualcosa, a ogni individuo che cerchi spunti per fenomenologizzare la propria figaggine: copiare questo post e incollarlo da qualche parte, usarlo per fini di studio, stesura di roba spacciata per vostra (mentre invece è mia) ecc, è un REATO A LIVELLO INTRINSECAMENTE UMANO…… quindi fate il favore … evitate,ok?

Siate tanto gentili da rispettare Jung, Hugo e Pandora.

Pandora Aion

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l’equilibrista tra gli specchi rotti

Avrebbe potuto anche chiudere gli occhi tanto non guardava il mondo esterno, ma solo dentro di sè”

 

 

IL NARCISISMO è MORTO.

(QUI NON SI PARLA DI CLINICA, QUESTE SONO SOLO RIFLESSIONI),

 

restando sulla superficialità di ciò che si può vedere-toccare-subire-esporre, non è piu considerata un indice di nulla, la situazione in cui ci so trova a sentirsi bloccati dentro un muro senza saperlo, ma avvertire solo che gli altri non possono comprenderti, non potranno mai, perchè si è speciali ma, al posto di poter estrovertire, questa specialità implode in un sè stesso che perde ogni forma, in quanto privo di relazionalità.

 

Non è piu’ una condizione considerabile, quella dell’individuo che non vuole (perchè non può) condividere e condividersi, instaurare una sincronia e una sintonia con i suoi simili. E che finisce con il renderli contenitori delle proprie parti di sè stesso che, non trovando spazio dentro, non potendo specchiarsi nel buio del proprio Essere, finiscono con l’essere lanciate contro(e non verso) il mondo.

 

non è piu una sofferenza, il fatto che non si possa avere un Incontro, ma bisogni rendere tali gli scontri, gli incroci, perchè un bisogno che non si comprende, nè si arriva a percepire, è privo di dialogo di fronte all’analfabetismo interiore.

 

Tutto questo è stato declassato.

Perchè?

Perchè è la normalità.

Perchè, oggigiorno, gli esseri umani medi hanno ricevuto, in dono dall’evoluzione emotiva e personologica, questa caratteristica. Perchè ci sono individui soli, soli da morire, in mezzo a innumerevoli altri individui con i quali spartiscono delle mere dimensioni: il tempo, lo spazio.

Con i quali non spartiscono sè stessi. Il proprio passato, il proprio futuro. Forse, non il presente, perchè in ogni attimo che lo si vive questo è già trasformatosi in passato.

 

Guardiamo al futuro, ma siamo il nostro passato. Un agglomerato di circostanze diverso dalla forma dellle stesse. Circostanze impregnate di aspettative (vecchie) , emozioni(eterne), paure (fisse. E, andando a scavare, nemmeno tanto differenti l’una dall’altra).

 

Oggi, in cui siamo liberi, l’unica ricerca in cui ci arrovelliamo è proprio quella di una libertà assoluta, interiore, esteriore, una proclamazione di indipendenza dagli altri.

Ma siamo davvero così indipendenti?

Una libertà che non viene messa alla prova, senza il rischio di poter essere in pericolo, è ancora degna di chiamarsi tale? E’ libertà, o è solo paura di essere messi a nudo di fronte a se’ stessi?

Perchè noi siamo noi stessi nel mondo, NEI MONDI, in quelli in cui ci inoltriamo e in cui, addentrandovici, ci svestiamo.

L’uomo non è piu’ tanto capace di svestirsi.

é divenuto un tutt’uno con i suoi atteggiamenti, con la propria maschera, con l’armatura fatta per difendersi – ma da cosa, poi?-

 

Come direbbe Larry (Closer, ndP), io sono un’acuta osservatrice del carnevale umano ( e, in quanto osservatrice, mi ci metto anche io nel fenomeno che osservo. Fenomenologicamente, sono parte anche io di tutto questo).

E vedo un Carnevale in senso pieno : tante maschere. Alcune bellissime, altre mortuarie. Altre indecifrabili.

Sempre di maschere, però, stiamo parlando.

 

siamo soli in mezzo a una infinita compagnia di altre monadi. E ci siamo ridotti così per cercare una libertà della quale, paradosalmente, ci priviamo allo stesso modo.

Un paradosso semantico.

 

Parallelamente, è sempre piu’ difficile guardarsi dentro . L’attività introspettiva è divenuta una prerogativa di noi che ci dedichiamo con tutta la nostra essenza a essa. Noi che, inoltrandoci così tanto  nel sottosuolo, rischiamo di perdere di vista il resto .

Mi viene in mente l’immagine di un drago cinese, di quelli lunghi che possono toccarsi la coda.

Siamo in un carnevale di questo tipo.

Non possiamo guardarci troppo dentro l’un l’altro, perchè potremmo specchiarci in qualcosa di noi che non ci piace ( ma, ovviamente, non lo chiamiamo così: noi siamo serenissimi nella nostro fenomenologico autosostenamento emotivo). Leggete pure: ‘noi non abbiamo bisogno di tutto questo’.

 

Di cosa non abbiamo bisogno?

Di ciò che non possiamo avere.

 

Cosa vogliamo?

Qualcosa che non potrà toglierci mai nessuno perchè è qualcosa di interno. Non esiste libertà incatenabile da altre persone , a livello di esistenza individuale.

 

é una mera scorciatoia che altri umani, prima di noi, si sono inventati per non mettersi di fronte al fatto che ESSERE-NEL-MONDO,ESSERE-NEI MONDI, APRIRSI, CONDIVIDERE,ESPLORARSI costa fatica, mette a rischio l’equilibrio ( e, si sa, ogni organismo etende all’omeostasi), toglie i veli di Maya dagli specchi. Potremmo vedere che Narciso non era così perfetto, che non erano le onde dell’acqua in cui si specchiava, a rendere il suo volto sconnesso.

Così, cosa abbiamo fatto, noi autonomi, superiori ( e questo non è ironico, perchè io sono convintissima del fatto che gli esseri umani siano creature superiori, altrimenti il mondo sarebbe stato dominato dalle tigri)

umani ?

Sfruttando la nostra capacità di adattamento, ci siamo sintonizzati su una linea retta, stabile, sopra e sotto la quale ci sono specchi che riflettono noi stessi .

camminiamo su questa linea, come un equilibrista.

Ogni tanto cadiamo.

E chiamiamo quella caduta un fallimento, un errore, un passo falso.

E’ quella caduta, se avviene e quando avviene, che ci apre la salvezza, perchè ci permette di infrangere noi stessi.

Eppure, piu il tempo passa, piu abbondiamo di mezzi di comunicazione, meno comunichiamo, meno condividiamo.

Piu’ ci evolviamo, piu’ ci rifugiamo in luoghi comuni che spiegano l’insondabile natura umana.

Abbiamo tolto il narcisismo, perchè non possiamo chiamare ‘problema’ ciò che ci sta , collettivamente, divorando l’essenza.

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anche un mostro vuole la sua culla

Rosemary guarda inorridita la culla .
Probabilmente, essa racchiude tutti gli incubi di una madre: il brutto e il cattivo nel proprio bambino è un po’ come l’esplicitazione del brutto e del cattivo in sé stessi. Che fare, allora ? E di chi è questo sguardo terrificato, chi questa persona in una stanza con le tende chiuse, una stanza che tiene fuori il mondo e dentro tante altre persone?
C’era una giovane sposa, una donna piena di sogni, c’era una coppia innamorata, c’erano gli alti e i bassi di un matrimonio. Mancava solo un bambino. Ed arrivò.
Cosa pensa una mamma che porta in grembo il proprio piccolo ? Non lo immagina, forse, come l’essere più perfetto del mondo ? Non ne diviene disperatamente innamorata? Non si lascia andare al pensiero di quando lo terrà tra le braccia, di quando lo nutrirà, lo vedrà crescere e affacciarsi alla vita? Non sogna forse, per lui, tutto il buono e il bello del mondo?
C’era anche un giovane uomo, incamminato da poco nel suo lavoro : c’era un marito, una carriera da battere, c’era l’amore e c’era l’ambizione. C’era la giungla urbana e la giungla umana.
Un avvio lento, un cambio di rotta improvviso, generato dalla sventura di un terzo individuo.
Nella nuova casa del nuovo quartiere, i due giovani incontrano due anziani.
Maternamente, questi si offrono di facilitare loro la vita. Sono ‘nonni’ un po’ invadenti, ma affettuosi. Sono ‘genitori’ sempre disponibili in caso di necessità .
La giovane donna tende all’indipendenza, il giovane uomo si lascia accudire.
E non c’è nessun imbroglio- solo perchè questi due signori praticano l’adorazione di Satana, non vuol dire che non scelgano di occuparsi della coppia in erba e di lasciare loro la libertà di scelta.
Questo film , progressivamente, tende a far sentire lo spettatore nella morsa dell’impotenza, del sovraumano che dirige la scena, da cui non si può scampare.
Un sovrumano chiamato ‘male’.
Ma quanto, poi, questo male è così cattivo? E, soprattutto, chi lo ha detto che il Male è uno ed è ‘oggettivo’, se proprio ci si voglia convincere della sua esistenza
Il signor Male protegge i suoi amici, fa loro trovare fortuna, non lede alle loro vite. Alle vite degli altri, forse, ma è un costante dubbio. Le morti che capitano sono ascrivibili a un rito, ovvero a un intervento del soprannaturale per mezzo, in ogni caso, di una mano umana umana.
Quando rosemary scopre chi sono i vecchietti della porta accanto ( o meglio , quando il dubbio si affaccia alla sua mente) , prova panico e terrore per il proprio figlio, non ancora nato . Eppure, nessuno l’ha costretta a fare nulla, se non tramite un lavoro psicologico cui lei ha partecipato, cedendovi attivamente.
Il ‘male’ di cui stiamo parlando non è solo quello che si serve di umani per aprirsi la strada. In questo film, è anche ciò che protegge i protagonisti, la causa dei loro beni.
Dopotutto, se potessimo per un momento astrarci dalla sovrastruttura morale, non faremmo la stessa cosa ?
Non cercheremmo il nostro bene a discapito di tutti gli altri ?
lo iato tra i due protagonisti, sempre piu profondo, non è interpretabile in termini morali. da una parte, c’è un umano allo stato selvaggio. dall’altra, un’umana ancora chiusa nella sua ‘realtà’, fatta di attribuzioni.
La natura ha fatto l’uomo in modo che egli potesse percepire cosa reputa ‘il proprio bene’ in una maniera visiva, direi quasi. Se l’uomo fosse rimasto allo stato individuale, non sarebbe esistito il problema del bene e del male, né il concetto del rispetto.
Non sarebbe esistito nulla di ciò che concepiamo come un valore comune.
La nostra storia, però non è andata così.
Avremmo finito per ucciderci, e proprio in virtù della capacità di percepire ‘visivamente’ ( in modo protovisivo, direi) ciò che porta benessere, abbiamo sacrificato un pizzico di ciò che è meglio per noi. Abbiamo unito i ‘pizzichi’ e creato il ‘ciò che è meglio per NOI’ .
Dal singolo al gruppo . Protezione, in cambio di devozione .
Un po’ la stessa cosa che ha proposto Satana ai suoi adepti.
Cosa ci sarebbe, dunzue, di strano nel proteggersi o nel volere ‘altro’?
Rosemary è inorridita, nel momento in cui capisce. Ha orrore e terrore di ciò che ha davanti. Ma, in fondo, questo è anche ciò in cui si trova dentro .
Sei dentro a quello che il ‘fuori’ chiama ‘male’ .
E questa parola cattiva ti ha dato una bella casa , ti ha dato i soldi, ti ha dato persino il figlio che volevi!
Solo che non sapevi !
E , a posteriori, che non sapeva può dire ciò che vuole, può affermare ‘ non lo avrei voluto’. L’unica cosa che credo fermamente è che non esistano SE e MA.
È successo e tu hai partecipato.
Man mano che la conoscenza si apre, che la storia si dispiega, Vediamo questa donna cadere nel terrore, nella paura che si faccia del male al suo bambino. Al bambino che ha in grembo. Quindi, potremmo dire, un po’ ha paura che si faccia del male a lei . E perchè teme ciò? Per un nome? Perchè, se finora non ha fatto che ricevere, ora teme che le sia tolto?
L’uomo e la donna si allontanano a causa di questa fondamentale differenza. Lui sa e ha scelto. Lei non sa. MA sceglie . Sceglie in ogni momento di non seguire il proprio istinto , che la porterebbe a scappare.
Sempre che quello, poi, sia realmente il SUO istinto, e non una paura ereditata dal ‘fuori’.
9 mesi passano in fretta.
E tra il terrore di questa cosa ignota che sta per generarsi , tra le urla e lo sfinimento, questo bimo di Satana nasce .
Le dicono che è morto.
Cercano di placarla con le pillole, ma rosemary cela le pasticche. La sua lucidità, o meglio , la lucidità che ha sempre conosciuto, deve avere la meglio .
E la sorpresa.
Questa stessa lucidità che le ha fatto nascondere le pillole, che le ha dato modo di trovare un passaggio segreto tra due appartamenti , che le ha fatto intendere cosa fosse la congrega che ha davanti e che l’ha portata a inorridire del proprio figlio … quella stessa lucidità, la porta ad amarlo .
La resa al Bene, se vogliamo usare questo discutibile concetto .
Una donna trova, in una culla, davanti a sé, un mostro generato da lei stessa. Un mostro brutto che fa parte di lei . Lo guarda, urla, si inorridisce. E poi lo difende dalle mani che non lo tratterebbero con la dovuta cura.
È un mostro, è quello che viene chiamato Male, ma è il suo .
E in questo modo, riesce ad amarlo . Ad amare, genuinamente, proprio ciò che riteneva più deprecabile
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THE THORN BIRD

“The bird with the thorn in its breast, it follows an immutable law; it is driven by it knows not what to impale itself, and die singing. At the very instant the thorn enters there is no awareness in it of the dying to come; it simply sings and sings until there is not the life left to utter another note. But we, when we put the thorns in our breasts, we know. We understand. And still we do it. Still we do it.” 

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LA LEGGENDA DELL’uccello di rovo.

L’uccello con la spina nel petto, segue una legge immutabile; è spinto da non sa che cosa a trafiggersi, e muore cantando. Nell’attimo stesso in cui la spina lo penetra, non ha consapevolezza della morte imminente; si limita a cantare e a cantare, finché non rimane più vita per emettere una sola altra nota. Ma noi, quando affondiamo le spine nel nostro petto, sappiamo. Comprendiamo. E lo facciamo ugualmente. Lo facciamo ugualmente.
— Colleen McCullough

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